lunedì 14 aprile 2014

Il crack della democrazia.

Emergenza democratica: la democrazia non funziona più.



Mi è capitato qualche tempo fa di leggere un articolo dell’Economist molto interessante sul come l’idea politica che ha avuto più successo nel Novecento, la democrazia per come la intendiamo noi, oggi appaia in forte crisi. Cercherò qui di riportare le osservazioni più interessanti e gli stimoli più accattivanti, sintetizzando quell'articolo.

Partendo da alcuni spunti che la tragica vicenda dell’Ucraina di queste settimane può offrire, si possono elencare le ragioni dei manifestanti ucraini che hanno chiesto la cacciata del presidente Janukovic e la stabilizzazione di un regime democratico: le democrazie odierne, infatti, sono mediamente più ricchi di quelli non democratici, sono stati meno bellicosi, la lotta alla corruzione riesce meglio; ma soprattutto è in materia di diritti che c’è una distanza abissale tra mondo democratico e non: libertà di parola, di stampa, di crescere i propri figli nel modo in cui si vuole.
Tuttavia, oggi, proprio laddove il mondo non democratico si muove per rovesciare un dittatore, è molto più difficile far nascere uno stato che si possa definire democratico: ne sono un esempio i paesi arabi in cui si è svolta la primavera araba, o la stessa Ucraina dopo la rivoluzione arancione, dove nel 2004, proprio Janukovic fu costretto a lasciare il paese, ma sarebbe stato rieletto nel 2010, dopo che le opposizioni si rivelarono incapaci.
Le democrazie, oggi, appaiono davvero in difficoltà, e anche quelle più stabili, mostrano i peggiori difetti di questo sistema. Eppure, proprio nel secondo Novecento, dunque fino a pochissimo tempo fa, la democrazia si è diffusa in ambiti estremamente complicati: Germania e Italia dopo nazismo e fascismo; India dove vi è il più alto numero di poveri al mondo; Sudafrica dopo l’apartheid; ma ancora Europa (in Portogallo, Grecia e Spagna nella prima metà degli anni ’70), in Sudamerica (in Argentina nel 1983, in Brasile nel 1985 e in Cile nel 1989), e le ultimissime in Africa e Asia e in Europa orientale dopo la caduta dell’Unione Sovietica.

Nel 2000, ben 120 paesi nel mondo sono stati considerati “democratici” (il 63% del totale nel mondo): la democrazia, insomma, sembrava essere lo stadio finale della storia degli stati. Lo sviluppo della democrazia, ci insegna la storia, non è però così inevitabile: dopo la caduta di Atene, venne rispolverata soltanto dall'Illuminismo nel ‘700 e la prima metà del ‘900 ha visto la caduta di molte democrazie in favore di totalitarismi (Italia, Germania, Spagna).

Oggi il 40% della popolazione mondiale può andare liberamente a votare alle elezioni, ma l’istituto Freedom House mette in allerta: dopo la II metà del XX secolo, dove la democrazia è avanzata senza precedenti, dal 2000 la situazione è peggiorata, se non addirittura regredita (dal 2005 al 2013 la libertà globale è diminuita continuativamente), portando molte democrazie verso l’autoritarismo, mantenendo solo l’immagine democratica, ma senza diritti e istituzioni che li salvaguardino.

I motivi per cui la democrazia oggi viene messa sempre di più in discussione, persino nell’occidente dov’è nata e si è sviluppata maggiormente, sono sostanzialmente due: la crisi economica iniziata nel 2007 e l’ascesa della Cina.
Le conseguenze della crisi non sono state (e continuano ad essere) solo economici, ma sono stati soprattutto psicologici: la crisi ha minato ai sistemi politici democratici, mostrando la loro debolezza e mettendo in crisi la fiducia (risorsa da sempre baluardo delle democrazie occidentali).

Per anni e anni, il debito pubblico di questi paesi è cresciuto a dismisura per garantire prestazioni e diritti ai cittadini; ma con la crisi, questo meccanismo si è inceppato e le persone hanno perso fiducia verso non soltanto le classi dirigenti, ma soprattutto la politica tutta (specie dopo il salvataggio di molte banche private con soldi pubblici, politiche di austerity, tagli lineari alla spesa pubblica, il tutto mentre i dirigenti e uomini d’affari della finanza continuavano ad accrescere i propri bonus). Intanto, nel lontano Oriente, la Cina avanza a passi da giganti sulla strada del progresso economico: quando gli USA crescevano al massimo della loro velocità, il loro tenore di vita raddoppiava più o meno ogni trent’anni; negli ultimi trent’anni il tenore di vita della Cina è raddoppiato più o meno ogni dieci anni.
Un rigido controllo da parte del partito e una continua ricerca di personale di talento da cooptare nelle alte gerarchie, il modello-Cina insomma, pare essere più efficiente di quello democratico occidentale. La classe dirigente cinese si rinnova all’incirca ogni dieci anni, c’è un ricambio costante grazie al premio e alla premiazione delle capacità dei dirigenti e dei loro obiettivi raggiunti.

È vero che la popolazione cinese è soggetta a quotidiani controlli, peraltro severissimi, che vengono puniti duramente; ad una censura terribile che riguarda ogni mezzo di comunicazione, compresa internet; ma allo stesso tempo, la Cina pare essere riuscita a risolvere problemi che una democrazia risolverebbe in decenni (un esempio lampante: in due anni la Cina ha esteso la copertura pensionistici a 240 milioni di contadini che ancora non l’avevano, un numero superiore agli iscritti al sistema pensionistico pubblico statunitense).

E non solo i dati (l’85%dei cinesi si ritiene “molto soddisfatto” delle scelte del proprio paese, contro il 31% degli statunitensi), ma anche alcuni intellettuali appaiono particolarmente favorevoli al modello cinese: diversi professori universitari cinesi sostengono che la democrazia sta spazzando via l’occidente, istituzionalizzando l’immobilismo, banalizzando il processo decisionale e producendo leader mediocri (come George W. Bush); rendendo complicate, futili e dispendiosi le cose più facili, permettendo inoltre ai politici con la migliore arte oratoria di ingannare i cittadini. Alcuni paesi in via di sviluppo (come Ruanda, Dubai e Vietnam) stanno effettivamente pensando di intraprendere il cammino cinese.

Modello, quello cinese, che sembra sempre più efficace, anche alla luce di cocenti delusioni (dalla Russia, dove, dopo i 1989, con Eltsin sembrava inevitabile si avviasse un processo di democratizzazione, aspettativa che sarebbe stata infranta da Vladimir Putin; passando per l’Ucraina, il Venezuela, l’Argentina e altri paesi, dove la democrazia non andava oltre la facciata democratica). Inoltre, anche la guerra iniziata nel 2003 in Iraq ha pesato sulla causa democratica: dietro la difesa della libertà e la battaglia ideologica (e non solo) contro il dittatore Saddam Hussein, dopo le stragi, le armi di distruzione di massa, l’invasione, a molti è sembrata un’altra impresa a favore dell’imperialismo americano, ma ancora di più ha dimostrato che la democrazia non è un “prodotto” esportabile in un terreno difficile.

Ancora: l’Egitto del 2011, dopo la caduta di Mubarak, alimentò molte speranze per i sostenitori della democrazia, ma due anni dopo, nonostante il presidente Morsi fosse stato eletto democraticamente, sarebbe intervenuto l’esercito per deporlo; e le guerre nelle vicine Libia e Siria han fatto tramontare del tutto i progetto della primavera araba. Anche molte neo-democrazie hanno compromesso la loro immagine: dal Sudafrica, dove l’African national congress, lo stesso partito di Nelson Mandela, al potere da anni, è afflitto da corruzione, infettando gli stessi apparati statali; alla Turchia di Erdogan che sta scivolando verso l’autoritarismo; in quella che era la penisola indo-cinese (Bangladesh, Tailandia e Cambogia), le elezioni vengono sempre di più contestate. Tutto ciò ha dimostrato che la democrazia è solo un traguardo, dopo molte e lente conquiste (basti pensare, storicamente, a quanto dopo è stato introdotto il suffragio universale nell’occidente rispetto all’istituzione di sistemi politici avanzati).

Oggi però le democrazie sembrano modelli troppo inefficienti e passati, anche laddove si sono radicate da più tempo. Gli Stati Uniti appaiono sempre più immobili, con i partiti concentrati su piccoli obiettivi e che hanno rischiato di far tracollare economicamente il paese due volte in due anni. Un altro effetto distorsivo è il gerrymandering (cioè disegnare le circoscrizioni elettorali per consolidare i propri partiti), aiutando l’estremismo, facendo leva sui “fedelissimi” e scoraggiando moltissimi elettori (il cosiddetto “elettore mediano”). Il peso sempre più pedante delle lobby ha fatto sì che il procedimento legislativo diventasse sempre più complicato, per difendere i privilegi di pochi e lo status quo e delle grandi quantità di denaro che caratterizzano il mondo politico di oggi alimenta l’immagine di una democrazia in vendita, di una distanza oceanica tra governanti e governati, tra ricchi e poveri, andando a screditare ancora una volta l’immagine complessiva della democrazia.
Anche l’Unione europea non è un esempio perfetto di democrazia. L’euro, la moneta unica dell’unione sempre più odiata dai cittadini dei paesi in cui è stata adottata, è stato frutto di una scelta presa quasi esclusivamente da tecnici; e nella crisi più nera di questa valuta, sono stati la Troika e l’élites europea a imporre misure durissime di austerità in Grecia e un governo tecnico in Italia; persino il parlamento europeo, dove vengono rappresentati tutti i delegati dei paesi dell’Unione, viene sempre più odiato dai cittadini europei. In questo modo, il populismo è stato risvegliato: ne sono una prova Alba dorata, partito neonazista, in Grecia e il successo di Marine Le Pen in Francia.

I concetti stessi che avevano fondato l’idea di democrazia, cioè lo stato-nazione e i parlamenti, oggi sono messi in discussione: dalla globalizzazione, la quale ha costretto la politica nazionale a cedere sempre più poteri ai mercati internazionali e agli organismi sovranazionali, non riuscendo più, gli eletti nei singoli stati, a mantenere le promesse fatte agli elettori; ma anche molte competenze e poteri sono passati dalla politica nazionale a tecnici specifici (come le banche centrali); alle insidie interne che arrivano dai separatisti (ad esempio catalani e scozzesi, ma anche gli stati indiani e i sindaci delle città statunitensi), dalle ong e dalle lobby, che cercano di interferire con la politica centrale e sottrarre qualsiasi tipo di potere ai governi nazionali.
In più, Internet ha reso molto più facile i processi di mobilitazione e partecipazione (pensiamo a quanto velocemente si possa votare in un reality show in TV), rendendo i meccanismi delle istituzioni della democrazia parlamentare estremamente antiquati.

Per superare la crisi economica di oggigiorno, che ha reso insostenibile una democrazia fondata sul debito (ad esempio Italia e Francia non hanno un bilancio in pareggio da tre decenni), le classi dirigenti devono prendere scelte difficili che la crescita ininterrotta aveva permesso di rinviare, ma austerità e rigore non saranno certo indolori: inevitabili saranno i conflitti, che già stanno marginalmente toccando alcuni paesi dell’Europa meridionale. Nelle democrazie sta avvenendo un conflitto generazionale tra passato e presente, anziani (a cui i numeri saranno sempre più a favore) e giovani, tra diritti acquisiti e investimenti per il futuro. 

La disaffezione alla politica si fa sempre più dura: l’affluenza alle urne è sempre più in calo (tra 1980 e 2013 nei paesi democratici è scesa di 10 punti percentuali e nel 2012 la metà dell’elettorato europeo dichiarava di non avere alcuna fiducia nel proprio governo.

Dunque, i modelli che erano considerati da seguire durante tutto il Novecento, Stati Uniti ed Europa, oggi non appaiono più come stati guida a livello mondiale. Ma anche le democrazie emergenti, come i paesi in via di sviluppo, hanno privilegiato la spesa a breve termine rispetto agli investimenti a lungo termine; qui in particolar modo, la politica è bloccata dagli interessi particolari e messa in crisi da consuetudini tutt’altro che democratiche. E neanche più i grandi industriali sostengono, qui, lo sviluppo democratico: mentre l’autoritarismo cinese continua a bruciare le tappe del progresso.

Non è la prima volta che la democrazia venne sconfitta in favore di altre forme di stato (negli anni Venti e Trenta del secolo scorso per esempio) e oggi la democrazia liberale è minacciata molto più dalla Cina che dal modello comunista sovietico.
Tuttavia, non è tutto oro ciò che luccica: anche la Cina è alle prese con problemi molto gravi (come la chiusura della classe dirigente, sempre più rivolta ai propri interessi personali; al suo arricchimento spropositato rispetto al reddito medio cinese; al rallentamento della crescita, pericolo tangibilissimo per un regime che fonda la propria credibilità sul progresso economico). Inoltre, i punti di forza della democrazia sono ancora molti: le libere elezioni, per esempio, permettono il confronto su proposte alternative, più differenziate e più creative per risolvere al meglio i problemi (sebbene non necessariamente la soluzione è la più semplice).

Certo, la democrazia non è qualcosa di dato, ma qualcosa in continuo divenire, che va perfezionato continuamente, salvaguardato; talvolta si è data troppa importanza soltanto alle elezioni, sottovalutando altri aspetti: è importante che i poteri dello stato siano sottoposti a controlli, i diritti individuali salvaguardati, come ogni tipo di libertà. Le costituzioni, infatti, che favoriscono la stabilità a lungo termine, pongono anche dei paletti fissi alla maggioranza al potere, diminuendo le probabilità che le minoranze si ribellino violentemente contro il potere governativo.

Pesi e contrappesi, dunque, sono fondamentali per il pieno sviluppo di una neo-democrazia; ma anche chi vive in una democrazia robusta deve essere sempre vigile dell’architettura politica del proprio stato. Questi sistemi devono continuamente innovarsi, soprattutto alla luce dei fenomeni quali la globalizzazione e la rivoluzione digitale. Molti paesi stanno procedendo su questa via e il nostro, l’Italia, dovrebbe prendere esempio: abbiamo troppi parlamentari, con stipendi troppo alti e il bicameralismo perfetto, seppur con notevoli qualità positive, si è rivelato un sistema troppo macchinoso e complicato.

Oggi l’occidente è di fronte a gravi problemi, primo fra tutti l’espansione dello stato: le dimensioni gigantesche di questi governi stanno riducendo le libertà dei cittadini e cedendo sempre più terreno ai particolarismi e interessi specifici; secondo: è ormai prassi che il governo faccia promesse che non è in grado di mantenere (per mancanza di risorse, per battaglie che non può vincere).

Dunque, è giusto che lo stato venga sottoposto a restrizioni (un esempio possono essere le banche centrali indipendenti, nate qualche anno fa, che hanno permesso di ridurre considerevolmente l’inflazione altissima degli anni ’80). E ci sono diversi modi perché i governi si autoregolino: come le riforme per le pensioni in Svezia verso un maggior ricorso a pensioni private e aggancio dell’età pensionabile all’aspettativa di vita, che ha permesso di evitare il collasso del sistema pensionistico; o in Cile, dove si è riusciti a nominare una commissione di esperti per affrontare l’instabilità economica nel settore del rame (di cui il paese è uno dei primi esportatori nel mondo).

E tutto ciò, non necessariamente significa scalfire la democrazia: questi limiti permettono agli elettori di non votare per politiche che diversamente porterebbero alla bancarotta e al default statale; senza tuttavia, eccedere di tecnocrazia: il potere delegato deve essere moderato, chiaro e su punti specifici, come anche il processo attraverso cui farlo, aperto e trasparente. Non deve essere una delega a senso unico, cioè verso l’alto, ma devono seguire delle deleghe verso il basso, grazie ad un coinvolgimento per parte delle scelte degli elettori. La ricetta vincente sta nell'unire globalismo e localismo.

La democrazia a livello locale, sosteneva Tocqueville, rappresenta la vera essenza della democrazia. I sindaci, non soltanto sono molto più vicini alla propria cittadinanza, ma conoscono anche meglio la realtà in cui vivono e godono di più popolarità rispetto ai politici nazionali. Non bisogna però scadere dall'altra parte dell’estremismo: una democrazia totalmente online dove tutto passa attraverso votazioni pubbliche, finirebbe per essere troppo fragile, lenta e favorirebbe gli interessi particolari. Tecnocrazia e democrazia diretta, dunque, possono e devono controllarsi l’un l’altro.
Alcuni stati che hanno già intrapreso questa strada: come in California, dove gli istituti di democrazia diretta erano già forti (ad esempio sull’aumento della spesa pubblica o dell’abbassamento delle tasse i cittadini potevano già esprimersi), sono state introdotte le primarie aperte e una commissione indipendente ha ridisegnato i confini dei collegi elettorali per ridurre il fenomeno del gerrymandering, ed è stato persino raggiunto il pareggio di bilancio; o in Finlandia, dove anche qui una commissione indipendente è stata istituita per trovare proposte concrete per il futuro del sistema pensionistico e dove il parlamento è costretto a esaminare qualsiasi proposta dei cittadini a patto che abbiano raggiunto le 50 mila firme.

La democrazia, dunque, se vuole tornare a funzionare al meglio, deve percorrere questo cammino (mettendo insieme tecnocrazia e democrazia diretta, delegando il potere verso il basso e verso l’alto). La democrazia, però, che è stata indubbiamente la più grande vincitrice delle battaglie ideologiche del secolo scorso, per tornare a prosperare anche ora, all’alba del nuovo millennio, deve essere vigilata, coltivata e conservata, e necessariamente ripensata, reinventata per come noi l’abbiamo presente oggi. Per stare al linguaggio adottato dal politologo Nippo-Americano Francis Fukuyama, dunque, il genere umano e il mondo intero non ci trova ancora di fronte alla fine della storia e dell’ultimo uomo (almeno, non ancora per ora).



Sintesi di Riccardo Roba

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