Il
campione Árpád Weisz
Storia
di un allenatore dimenticato
Non
sono un grande appassionato di calcio, lo so. Lo sa mio fratello, lo
sanno i miei genitori, lo sanno i miei amici.
Quando sento la parola
calcio, non riesco davvero ad inserirmi nel discorso, non provoca in
me nessun interesse. Però ad una vicenda, ad una vita, ad una
persona mi sono interessato, un uomo che col calcio c'entra
parecchio.
Il
suo nome era Árpád Weisz, nacque a Slot, Ungheria, nel lontano
1896, da genitori ebrei. Fu un giocatore di calcio, un appassionato,
questo sì, nei confronti di questo fantastico sport, come pochi sono
stati nella storia, giocando in diverse squadre, inclusa la propria
nazionale.
Tuttavia, la sua carriera viene ricordata soprattutto per
la sua carriera di allenatore.
Fece le sue primissime esperienze in
Sudamerica, là in quel continente considerata la patria di tanti
campioni, di ieri e di oggi; là dove il calcio non è solo sport, ma
è anche spettacolo.
Lì apprese le migliori tecniche, gli schemi di
gioco, le formazioni; lì apprese l’arte della vittoria. Fu
allenatore della vecchia Alessandria, squadra piemontese di
prim’ordine, nata nei primi anni del ‘900. Divenne però famoso
durante il campionato del 1929-30, quando fu allenatore dell’allora
Ambrosiana, oggi Inter, quando con la squadra scalò, partita dopo
partita, le posizioni della classifica del campionato, per giungere,
alla fine, alla vetta, a quel tanto desiderato primo posto. Non solo.
Quando Weisz vinse lo scudetto aveva 34 anni, cioè era il più
giovane allenatore a diventare campione d’Italia (record tuttora
imbattuto). Inoltre, proprio quando sedette sulla panchina interista,
scoprì il talento Giuseppe Meazza.
Nel
1934, scrisse col dirigente Aldo Molinari il manuale “Il giuoco del
calcio”, con tanto di prefazione di Vittorio Pozzo. Fu sempre Árpád
Weisz ad introdurre in Italia il sistema Chapman, lui a sperimentare
i ritiri, lui ad allenarsi coi pantaloni corti con i giocatori. Fu
allenatore del Novara, poi del Bari. Ancora del Bologna, e con i
rossoblu vinse i campionati nel 1935-36 e nel 1936-37. Erano una
furia, erano inarrestabili. Tanto invincibili da travolgere il
Chelsea per 4-1 a Parigi, vincendo il Torneo dell’Esposizione
Universale. Era ancora il 1937. L’anno successivo sarebbero state
pubblicate le infami leggi razziali. Era l’inizio della fine.
A
fine ottobre 1938, il Bologna lo licenziò, dopo un’altra vittoria
della propria squadra contro il Lazio. I figli non poterono
iscriversi a scuola; Árpád trovò davanti a sé tutte porte
sbarrate.
Quando capì che la situazione stava andando peggiorando,
scappò a Parigi, e di lì ancora verso l’Olanda, nel piccolo
paesino di Dordrecht, dove allenò la piccola squadra locale. Ben
presto, però, anche i Paesi Bassi vennero invasi dalle truppe
naziste.
L’ultimo messaggio di Weisz è una cartolina di auguri del
’40 mandata a Bologna. Pochi mesi dopo, nel 1941, i nazisti
vietarono agli ebrei di andare allo stadio, di frequentare la scuola,
salire sui mezzi pubblici, andare in luoghi pubblici. I Weisz vennero
aiutati segretamente dal presidente del Dordrecht, mentre Árpád
seguiva di nascosto le partite della sua squadra da dietro le
staccionate di legno.
Il
7 agosto 1942 le SS prelevarono Árpád Weisz e tutta la sua
famiglia, per deportarli nel campo di Westerbork, da dove passerà
anche Anna Frank.
Il suo fisico da allenatore gli permise di rimanere
in vita, venendo assegnato ai lavori forzati; per il resto della
famiglia, il destino fu quello immediato delle camere a gas. Fu
ancora portato ad Auschwitz, dove in media si resisteva 4 mesi prima
di soccombere. Lui ne resistette 16. Lo trovarono morto il 31 gennaio
1944, sfinito, stremato, magro fino all’osso.
Árpád
Weisz è stato dimenticato per settanta anni, cancellato, gettato nei
più bui dimenticatoio, nei più profondi oblii. È la storia di un
uomo, di un padre di famiglia, di un lavoratore, di un campione. È
la storia di una persona di quei tanti milioni di deportati che sono
state rimosse completamente, una di quelle tante vite andate perdute.
Per questo, Árpád Weisz, io ti ricordo.
Riccardo Roba
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