mercoledì 18 dicembre 2013

Il Campione Árpád Weisz


Il campione Árpád Weisz

Storia di un allenatore dimenticato

Non sono un grande appassionato di calcio, lo so. Lo sa mio fratello, lo sanno i miei genitori, lo sanno i miei amici.
Quando sento la parola calcio, non riesco davvero ad inserirmi nel discorso, non provoca in me nessun interesse. Però ad una vicenda, ad una vita, ad una persona mi sono interessato, un uomo che col calcio c'entra parecchio.


Il suo nome era Árpád Weisz, nacque a Slot, Ungheria, nel lontano 1896, da genitori ebrei. Fu un giocatore di calcio, un appassionato, questo sì, nei confronti di questo fantastico sport, come pochi sono stati nella storia, giocando in diverse squadre, inclusa la propria nazionale. 
Tuttavia, la sua carriera viene ricordata soprattutto per la sua carriera di allenatore.
Fece le sue primissime esperienze in Sudamerica, là in quel continente considerata la patria di tanti campioni, di ieri e di oggi; là dove il calcio non è solo sport, ma è anche spettacolo. 

Lì apprese le migliori tecniche, gli schemi di gioco, le formazioni; lì apprese l’arte della vittoria. Fu allenatore della vecchia Alessandria, squadra piemontese di prim’ordine, nata nei primi anni del ‘900. Divenne però famoso durante il campionato del 1929-30, quando fu allenatore dell’allora Ambrosiana, oggi Inter, quando con la squadra scalò, partita dopo partita, le posizioni della classifica del campionato, per giungere, alla fine, alla vetta, a quel tanto desiderato primo posto. Non solo. Quando Weisz vinse lo scudetto aveva 34 anni, cioè era il più giovane allenatore a diventare campione d’Italia (record tuttora imbattuto). Inoltre, proprio quando sedette sulla panchina interista, scoprì il talento Giuseppe Meazza.

Nel 1934, scrisse col dirigente Aldo Molinari il manuale “Il giuoco del calcio”, con tanto di prefazione di Vittorio Pozzo. Fu sempre Árpád Weisz ad introdurre in Italia il sistema Chapman, lui a sperimentare i ritiri, lui ad allenarsi coi pantaloni corti con i giocatori. Fu allenatore del Novara, poi del Bari. Ancora del Bologna, e con i rossoblu vinse i campionati nel 1935-36 e nel 1936-37. Erano una furia, erano inarrestabili. Tanto invincibili da travolgere il Chelsea per 4-1 a Parigi, vincendo il Torneo dell’Esposizione Universale. Era ancora il 1937. L’anno successivo sarebbero state pubblicate le infami leggi razziali. Era l’inizio della fine.

A fine ottobre 1938, il Bologna lo licenziò, dopo un’altra vittoria della propria squadra contro il Lazio. I figli non poterono iscriversi a scuola; Árpád trovò davanti a sé tutte porte sbarrate.
Quando capì che la situazione stava andando peggiorando, scappò a Parigi, e di lì ancora verso l’Olanda, nel piccolo paesino di Dordrecht, dove allenò la piccola squadra locale. Ben presto, però, anche i Paesi Bassi vennero invasi dalle truppe naziste.

L’ultimo messaggio di Weisz è una cartolina di auguri del ’40 mandata a Bologna. Pochi mesi dopo, nel 1941, i nazisti vietarono agli ebrei di andare allo stadio, di frequentare la scuola, salire sui mezzi pubblici, andare in luoghi pubblici. I Weisz vennero aiutati segretamente dal presidente del Dordrecht, mentre Árpád seguiva di nascosto le partite della sua squadra da dietro le staccionate di legno.


Il 7 agosto 1942 le SS prelevarono Árpád Weisz e tutta la sua famiglia, per deportarli nel campo di Westerbork, da dove passerà anche Anna Frank.
Il suo fisico da allenatore gli permise di rimanere in vita, venendo assegnato ai lavori forzati; per il resto della famiglia, il destino fu quello immediato delle camere a gas. Fu ancora portato ad Auschwitz, dove in media si resisteva 4 mesi prima di soccombere. Lui ne resistette 16. Lo trovarono morto il 31 gennaio 1944, sfinito, stremato, magro fino all’osso.

Árpád Weisz è stato dimenticato per settanta anni, cancellato, gettato nei più bui dimenticatoio, nei più profondi oblii. È la storia di un uomo, di un padre di famiglia, di un lavoratore, di un campione. È la storia di una persona di quei tanti milioni di deportati che sono state rimosse completamente, una di quelle tante vite andate perdute. Per questo, Árpád Weisz, io ti ricordo.




Riccardo Roba

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